Teatro

'Se Ruccello fosse ancora vivo? Scriverebbe per Almodovar.'

'Se Ruccello fosse ancora vivo? Scriverebbe per Almodovar.'

Intervista a Margherita Di Rauso, che porta in scena Ida, l'insegnante dalla sessualità patologica, protagonista di "Weekend", un testo bellissimo ma poco rappresentato di Annibale Ruccello, il grande autore campano scomparso trent'anni fa.

Campana come Ruccello, Margherita Di Rauso racconta i risvolti nel calarsi nella parte di un personaggio complesso e scomodo, tratteggiato in modo sublime da quello che la stessa attrice definisce “un grande antropologo”.

Ma c’è spazio anche per una riflessione più ampia: la difficoltà di scrivere oggi per il teatro, l’arricchimento di portare in scena per anni lo stesso testo, il valore aggiunto di essere campana come l’autore. E il tema della “vocazione” da attrice, per il quale ha vinto anche un premio Hystrio. Una vocazione che le ha dato tanto ma che, all’inizio, è stata complessa da gestire.

Un capolavoro di psicologia che ha avuto poca fortuna in teatro. Come mai secondo lei?
Le ragioni effettive non le conosco, ma credo che da un lato c’entri l’eredità morale lasciata all’attrice  che l’aveva interpretato con lo stesso Ruccello, e dall’altro anche la difficoltà di misurarsi in un ruolo scomodo, quello di Ida, un personaggio apparentemente negativo, certamente non  avvenente (almeno non all’inizio), claudicante, forse anche un po’ antipatica, che porta l’attrice a dover fare un viaggio nel profondo inconscio. E’ un personaggio dalla sessualità patologica, forse un’assassina, una cannibale, ma anche a tratti - suo malgrado - tragicomica.

Eppure la storia di Ida precorre quella che è diventata un po’ la moda del toyboy, non crede?
In apparenza sì, perché Ruccello era sicuramente un geniale antropologo, un profondo osservatore della realtà e dei comportamenti umani, che usava gli stereotipi da B movie. La scena di lei che seduce l’idraulico è degna di un film di Pierino degli anni 80’: diverte sì, ma poi racconta quello che c’è di più profondo nell’animo umano.

E’ trent’anni che Ruccello non c’è più. Ha scritto poco e in un’età in cui ora i commediografi fanno ancora gavetta. Com’è cambiato il modo di scrivere per il teatro?
Ruccello era molto amareggiato perché era molto difficile per lui portare in scena i suoi testi e comunque ha scritto poco ma dei testi geniali e ha raggiunto la notorietà solo poco prima di morire. Non credo sia cambiato il modo di scrivere, ma credo che la scrittura vada di pari passo con l’evoluzione della società, di quello che ci sta intorno. Un bravo scrittore è quello che sa cogliere gli umori, i cambiamenti e sa portare alla luce quello che a volte è sotto gli occhi tutti  ma ci sfugge.  Ruccello era un antropologo e le sue pièce sono ambientate negli anni 80’. Oggi gli scrittori parlano d’altro: penso a Stefano Massini con Lehman o allo stesso De Bei che ha scritto un testo sulla figura della grande artista Louise Bourgeois, che ho avuto la fortuna di portare in scena. E’ comunque  molto difficile scrivere per il teatro oggi, perché è difficile mettere in scena gli spettacoli con tutte le difficoltà economiche e del mercato. E questo è il motivo per cui gli scrittori si affermano  molto tardi, mentre gli scrittori giovani si rivolgono al cinema e alla televisione, non tentando neanche la carriera teatrale.

E’ qualche anno che porta in scena "Weekend". In cosa è evoluto e cosa le ha dato, magari in meglio?
La fortuna degli attori è che più invecchiano più arricchiscono il loro bagaglio emotivo e possono mettere al servizio del personaggio  la loro crescita e la maturità. E’ quello che mi  successo con il personaggio di Ida. Inoltre il personaggio dello studente Marco è stato  interpretato da diversi attori e ognuno di loro ha portato qualcosa di diverso. Ho compreso maggiormente la disperazione di Ida e attraverso la pietas ho trovato la chiave di lettura di questo personaggio così complesso.

Da campana come Ruccello, c’è un valore in più a interpretare questo testo?
Assolutamente sì. Ho sempre voluto interpretare i testi di Ruccello così come quelli di Eduardo perché la lingua delle origini, quella campana appunto, ti agevola nel dare una maggiore verità al personaggio.

Il testo era stato scritto e tagliato su un’attrice, Barbara Valmorin. Ha avuto modo di conoscerla?
L’ho conosciuta proprio in occasione dello spettacolo per comunicarle personalmente della nuova messa in scena, ma ho preferito non chiedere nulla riguardo la sua interpretazione. Mi sono affidata al regista Luca De Bei che ha fatto un attento studio del testo e delle intenzioni dell’autore e poi ho dato il mio contributo al personaggio trovando anche molte cose in comune con me. Per esempio, Ruccello ha descritto Ida come non napoletana ma proveniente da un paese imprecisato della provincia e io sono appunto di Capua, provincia di Caserta. Ho trovato altre piccole coincidenze che però mi sono state d’aiuto come il fatto che Ida fosse zoppa: io da bambina ho avuto un incidente d’auto e di conseguenza ho dovuto portare un supporto alla scarpa per alcuni anni, e poiché i bambini  a volte possono essere cattivissimi mi davano appunto della zoppa. E, ancora, vengo da una famiglia di insegnanti, gli amici dei miei genitori erano insegnanti e ho molto chiare certe figure femminili di professoresse che sono un po’ delle Ida.

Se Ruccello fosse ancora vivo, secondo lei di cosa scriverebbe oggi?
Una sceneggiatura per il più bel film di Almodovar.

La sua è una carriera molto intensa. Ha lavorato coi più grandi. Cosa le manca per dire “bene, ho avuto tutto quello che desideravo”? Anche idealmente.
La ringrazio, ma mi sembra sempre di non aver fatto abbastanza. Vorrei lavorare con bravi registi,  non importa se famosi, ma soprattutto che abbiano belle idee e sappiano guidare gli attori. Io sono un’attrice che si affida totalmente al regista.

Premio Hystrio alla vocazione. Lei quando ha capito di averla?
Quando avevo 4 anni e guardavo alla TV un vecchio film, Sunset Boulevard, con Gloria Swanson. Piansi calde lacrime e pensai che volevo diventare sicuramente un’attrice .

Ogni vocazione comporta delle rinunce. C’è qualcosa a cui ha rinunciato per la vocazione?
Sono partita con la mia valigia a 18 anni per fare teatro, sono poi approdata al Piccolo alla scuola di Strehler. Sicuramente lasciare la mia famiglia a cui ero molto legata è stato difficile e ha comportato un grosso distacco: venivo da una piccola città di provincia e sono stata catapultata in un teatro  tra i più importanti d’Europa, in un ambiente sicuramente competitivo. Tutto ciò mi ha creato grosse insicurezze, ho fatto molta psicoterapia per ritrovarmi e poi mi sono tuffata completamente nel teatro, mi consideravo una specie di vestale del teatro senza legami che potessero essere di ostacolo alla mia formazione. Oggi ho invece una famiglia, formata in tarda età, un marito e un figlio piccolo che sono la mia ragione di vita e mi danno più forza anche come attrice.


"WEEKEND"
Teatro Elfo Puccini di Milano
Dal 13 al 18 dicembre
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